Brigantessa se more

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Dopo la celebrazione della Liberazione ricordiamo i primi partigiani di questo paese.

Di sotto riportiamo alcuni estratti da Italiani, brava gente? di Angelo del Boca. Primo studio storico serio sul colonialismo italiano (e sulle sue insite nefandezze) che dedica il suo secondo capitolo alla conquista del Meridione d’Italia (impropriamente chiamato Risorgimento).

2. La guerra al “brigantaggio”

Tra l’annessione delle regioni del Meridione, culminata con la resa di Gaeta il 15 febbraio 1861, e l’infausta giornata di Custoza (24 giugno 1866), l’Italia appena unificata si trovò a combattere una guerra imprevista, insidiosa, infinita e spietata. Fu chiamata, sbrigativamente e rozzamente, guerra al brigantaggio. Ma i briganti, che in quelle regioni esistevano da sempre, costituivano un’infima minoranza, anche se aggressiva e crudele. La maggioranza degli insorti contro lo Stato unitario era formata da almeno 10.000 soldati dell’esercito borbonico, che si erano dati alla macchia dopo la fuga a Roma di Francesco II di Borbone. A questi soldati, delusi e umiliati e per nulla disposti a entrare nell’esercito dei Savoia, si erano uniti migliaia di braccianti senza terra e paesani che rifiutavano la leva obbligatoria e gli inasprimenti fiscali.

Fu, come giustamente fa rilevare Mario Isnenghi, «una guerra senza regole e senza onore» 96. Ma fu anche una guerra di tipo coloniale, che anticipò, per le inaudite violenze e il disprezzo per gli avversari, quelle poi combattute in Africa.

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La convinzione, molto diffusa tra i militari e i politici piemontesi, che nel Sud operassero soltanto dei delinquenti come Carmine Donatelli, detto Crocco, Luigi Alonzo, detto Chiavone, Cosimo Mazzeo, detto Pizzichicchio, Luigi Andreozzi, Nunzio Tamburrini, Luigi Croce Di Tola e centinaia di altri briganti, particolarmente addestrati alla guerriglia, li induceva a considerare il fenomeno del brigantaggio esclusivamente come una questione criminale, per la quale non c’erano altri rimedi che la repressione, immediata e durissima. Possibilmente più spettacolare dell’offesa.

Le esecuzioni dei “briganti”, infatti, avvenivano solitamente nella piazza principale dei paesi dinanzi a folle atterrite.

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Gli stessi spettacoli raccapriccianti, con intenti educativi e dissuasivi, punteggeranno l’intera storia della nostra presenza in Africa. Si pensi, soltanto, all’impiccagione di Omar al-Mukhtàr, nel campo di concentramento di Soluch, dinanzi a 20.000 libici tradotti a forza dai vari lager. O alla testa mozzata del degiac Hailù Chebbedè esposta, infilzata su di un lungo palo, nella piazza del mercato di Quoram.

Il movimento eversivo aveva inizio in Basilicata nell’aprile 1861 e nell’estate si estendeva all’Irpinia, al Sannio, al Molise, all’Abruzzo, alla Puglia, alla Capitanata e alla Terra di Lavoro. Al culmine della rivolta, si contavano, secondo alcune stime, 400 bande per complessivi 80.000 gregari, mentre i paesi coinvolti nei conflitti erano oltre 1400 101. Le bande, spesso capeggiate da ex militari dell’esercito borbonico, erano in grado di occupare per interi giorni villaggi e cittadine, assassinando

o sequestrando le persone che professavano ideali liberali, e ostentando le bianche bandiere dei Borboni. Esse non temevano di scontrarsi con reparti dell’esercito regolare e della Guardia nazionale, ma erano abilissime nello sganciarsi e nel trovare rifugio nei boschi.

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Conclusa la guerra al brigantaggio, autorità e storici avrebbero fatto di tutto per occultare quei drammatici episodi di guerra civile. Poche righe nei testi di scuola e tutte in difesa delle forze repressive che avevano salvato l’unità del paese. Non un cenno alla grande alleanza politica tra le classi dominanti del Nord e i latifondisti del Sud, a tutto danno delle classi subalterne. Bisognava attendere il 1945 e la pubblicazione di Cristo si è fermato ad Eboli per leggere un giudizio sereno e leale sulla più sciagurata delle guerre italiane.

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Quante sono state le vittime di questa insulsa guerra fratricida? Le statistiche sono scarse e sicuramente incomplete. Per le perdite nei ranghi degli insorti le stime più attendibili sono quelle compilate da Franco Molfese, che dà 5212 fucilati o uccisi in combattimento, 5044 arrestati, 3597 arresi alle autorità, per un totale di 13.853 114. Ma queste cifre riguardano soltanto il periodo che va dal primo giugno 1861 al 31 dicembre 1865, e non conteggiano le perdite subite nei primi mesi del 1861 e nei cinque anni successivi al 1865, quando il generale Pallavicini di Priola non fu meno brutale di Cialdini nel condurre le operazioni repressive. Forse non si è lontani dalla realtà se si aumentano le cifre indicate da Molfese di un buon terzo. Con questo ritocco, ci si potrebbe avvicinare alle stime fornite da Giacinto de’ Sivo, riprese da Carlo Alianello in La conquista del Sud: 9860 fucilati, 10.604 feriti, 13.629 arrestati. Un’altra stima, parziale, per il periodo luglio 1861 – febbraio 1863, suggerita da Luigi Torres e compilata in base ai documenti conservati nell’Archivio dell’Ufficio storico dello Stato Maggiore dell’Esercito, propone queste cifre: 1765 fucilati, 2343 uccisi in combattimento, 4496 arrestati, 3038 arresi 115.

Nessuna cifra, invece, è disponibile per gli uccisi tra i soldati dell’esercito regolare e della Guardia nazionale, nel corso della loro operazione repressiva. Sconosciuta, anche, l’entità delle perdite fra i civili che non parteggiavano per gli insorti. Scorrendo, però, gli elenchi dei fatti d’arme, con il relativo numero di caduti, non è difficile giungere alla conclusione che i soldati hanno pagato un pesante scotto, forse quantificabile in alcune migliaia di morti.

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Per finire, ben poco sappiamo delle perdite nell’esercito borbonico, che in questa guerra fra italiani, prima si oppose alle truppe regolari e garibaldine, poi diede un forte contributo alla lotta antiunitaria delle popolazioni meridionali. Francesco Proto, duca di Maddaloni, nel suo intervento in Parlamento del 20 novembre 1861, parla di «ventimila uomini spenti, quali nella lotta, quali fucilati perché prigionieri o sospetti od ingiustamente accusati» 119. Se non conosciamo l’esatto numero dei morti, conosciamo invece quello dei prigionieri e il loro infelice destino. Definiti “sbandati”, perché si erano rifiutati di entrare a far parte dell’esercito nazionale, furono deportati, in oltre 10.000, al Nord, in carri bestiame, e smistati in varie località: Genova, Alessandria, Bergamo. Per i più riottosi si aprirono le porte del forte di San Maurizio Canavese, del Castello Sforzesco di Milano e del forte di Fenestrelle, un autentico campo di repressione.

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Non era un bell’inizio, per l’Italia, questo processo di unificazione, che si attuava con plebisciti farsa, con annessioni forzate che violavano ogni norma del diritto internazionale, con l’istituzione di campi di concentramento, con la pacificazione del Meridione realizzata con lo stato d’assedio permanente, i tribunali militari, le fucilazioni sommarie. «Eppure» ricorda Di Fiore «c’è chi continua a parlare di “italiani buoni” venuti dal Nord a liberare i “fratelli del Sud” vessati dallo straniero» 121. Questa leggenda degli «italiani buoni» cominciava dunque a circolare a unità appena raggiunta, se è vero che il maggiore Migliara, nell’accusare il sindaco di Cervinara di spacciarsi da gran patriota, ma in realtà commettendo abusi e prepotenze, così l’apostrofava: «Ascoltate, signor Sindaco, noi piemontesi siamo buoni, troppo buoni, ma non siamo minchioni, stupidi come voi credete» 122.

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