Achcar: Le difficoltà saudite

di Gilbert Achcar da Le Monde Diplomatique

Per attuare le proprie politiche regionali l’elite saudita ha fatto affidamento sul sostegno, anche militare, statunitense ma dall’insediamento dell’amministrazione Trump nessuna di queste ha avuto successo.

Donald Trump Saudi Arabia
Donald Trump riceve la più alta onorificenza saudita (Foto CNN)

Ciò che caratterizza il Medio Oriente è il petrolio, non l’Islam. L’abbondanza di idrocarburi nel Golfo arabo-iraniano indusse l’impero britannico a creare o rafforzare sul versante arabo degli stati che possiamo considerare artificiali per vari motivi e che rappresentano le monarchie più retrive del mondo contemporaneo. Gli inglesi hanno rinvigorito e sfruttato ciò che restava del tribalismo, trasformato i clan in “famiglie reali” e fondato delle potenze assolutiste ereditarie nella speranza di controllarle fino all’esaurimento delle risorse petrolifere. Il petrolio ha indotto gli USA ad agire nello stesso modo nei confronti del regno saudita, il suo protettorato de facto più antico nell’area. Il “leader del mondo libero” ha sostenuto il paese meno democratico, più misogino e fondamentalista del pianeta, l’unico ad avere il Corano e la Sunna (gli atti e i detti del Profeta) al posto di una costituzione.

Una caratteristica dei membri del Consiglio di Cooperazione del Golfo – Arabia Saudita, Oman, Kuwait, Bahrain, Emirati Arabi Uniti (EAU) e Qatar – è che la loro forza lavoro è prevalentemente straniera e, in alcuni casi, gli stranieri sono addirittura la maggioranza della popolazione: negli EAU e in Qatar quasi il 90%. La grande autonomia concessa dal petrolio e dal gas ha fatto sì che questi sistemi arcaici sopravvivessero innestati su istituzioni statuali ed economie capitalistiche moderne. Più il potere è concentrato, maggiore è la capacità dello stato di ignorare una logica socioeconomica in cui gli interessi di una classe capitalista o uno strato di burocrazia agiscono come un limite. Se l’elite al potere è ristretta e in grado di trattare lo stato come una sua proprietà privata grazie al petrolio allora avrà meno vincoli strutturali e maggiore libertà di manovra, potendo prendere decisioni repentine che potrebbero sembrare eccentriche e volubili. I grandi apparati statali mutano la loro rotta più lentamente ma gli stati in cui il potere è estemamente concentrato possono sterzare inaspettatamente.

L’Iran e l’Iraq sono gli unici paesi del Golfo con una struttura sociopolitica differente da quella predominante nella regione: entrambi hanno delle antiche civiltà urbane, un più alto numero di abitanti, società più sviluppate e sono gli unici paesi ad aver rovesciato le loro monarchie. Ciò ha portato in Iraq al regime ereditario “repubblicano” del Partito Baath, che fino all’invasione statunitense del 2003 era governato da una famiglia (quella di Saddam Hussein) che aveva gli stessi difetti delle monarchie assolute.

In Iran la caduta dello scià ha portato all’instaurarsi di una forma singolare di stato teocratico che, a differenza dei suoi vicini del Golfo, non è governato da una famiglia bensì da leggi e istituzioni, anche se la Guida Suprema gode di un potere eccezionale [1]. Come tale è l’unico paese dell’area che agisce secondo una strategia coerente e facilmente riconoscibile: l’espansionismo delle Guardie Rivoluzionarie, il cui potere si è ultieriormente legittimato in seguito all’inasprirsi delle tensioni regionali [2].

Nessun vincitore nella guerra tra Iran e Iraq

La nascita della Repubblica Islamica nel 1979 ha determinato l’attuale assetto geopolitico del Golfo. La rivoluzione iraniana ha spaventato i suoi vicini arabi, specialmente perchè all’epoca dopo la sconfitta in Vietnam gli Stati Uniti erano al minimo storico e costretti ad affrontare una serie di sfide, tra cui la rivoluzione in Nicaragua e l’invasione sovietica dell’Afghanistan. L’attacco dell’Iraq all’Iran nell’80 ha fornito una soluzione agli USA e ai suoi alleati: agevolare la reciproca distruzione di questi stati problematici. Dopo otto anni di guerra e quasi un milione di morti non ci fu nessun vincitore.

Nell’agosto 1990 Saddam Hussein occupò il Kuwait dopo che non ottenne la cancellazione dei debiti contratti con le monarchie che lo avevano sostenuto. Ciò diede agli Stati Uniti l’opportunità di cogliere due piccioni con una fava: stavano infatti rientrando nel Golfo per la prima volta dal ’62 (quando furono costretti ad evacuare la base di Dhahran nella regione petrolifera saudita a causa delle pressioni dell’Egitto di Nasser) e dimostravano ad alleati, rivali e nemici di essere l’unica potenza post-guerra fredda.

I dirigenti iraniani ebbero reazioni contrastanti all’intervento militare del ’91, anche se aveva come obiettivo il loro nemico: l’Iraq baathista. La dimostrazione di forza statunitense invece rassicurò la famiglia reale saudita che si sentì protetta contro qualsiasi incursione iraniana. L’atteggiamento nei confronti della guerra contro l’Iraq divenne la cartina tornasole dei rapporti di Riyadh nell’area: il regno punì tutti coloro che avevano sostenuto Saddam nella sua invasione del Kuwait o che si erano opposti all’intervento statunitense. L’Arabia Saudita espulse quasi un milione di lavoratori yemeniti, ridusse il sostegno all’OLP di Yasser Arafat e interruppe i rapporti con la Fratellanza Musulmana, sebbene fosse stata la sua principale sostenitrice sin dalla sua fondazione in Egitto nel 1928. Assieme agli USA i sauditi si erano opposti al regime nazionalista egiziano (1954-70) di Jamal Abdel Nasser che era sostenuto dai sovietici ed aveva duramente represso la Fratellanza. Quest’ultima avrebbe perso troppi membri se avesse sostenuto i sauditi durante la prima Guerra del Golfo e l’intenzione di Riyadh era di farla rientrare nei ranghi (come l’OLP) privandola del sostegno logistico e finanziario.

La situazione cambiò nel ’95 quando Hamad bin Khalifa al-Thani prese il potere in Qatar deponendo suo padre, iniziò ad assumere un ruolo di primo piano nella politica regionale e decise di finanziare la Fratellanza proprio come i magnati comprano le squadre di calcio. Inoltre fece un grosso investimento per creare il canale satellitare Al Jazeera, nel quale la Fratellanza svolgeva un ruolo fondamentale e che presto ebbe un pubblico enorme dando spazio ai movimenti d’opposizione nel mondo arabo – esclusi quelli in Arabia Saudita e nello stesso Qatar dove la lesa maestà può condurre all’ergastolo.

L’emiro con queste armi politiche doveva affrontare l’ira della monarchia saudita e decise di creare legami con tutte le principali forze regionali: finanziò la costruzione segreta di una base dell’aviazione statunitense ad Al-Udeid, vicino Doha, e instaurò legami commerciali con Israele mentre sfoggiava ottimi rapporti con l’Iran e sosteneva Hezbollah in Libano e Hamas in Palestina.

Scoppia la Primavera Araba

L’invasione dell’Iraq nel 2003 provocò il caos in tutta la regione e probabilmente è stato il più grave fallimento della politica imperiale statunitense, vista la posta in gioco molto alta: gli USA e i suoi alleati dovettero ritirarsi nel 2011 senza aver ottenuto nessun obiettivo fondamentale e con il paese dominato dal loro arcinemico, l’Iran.

Nel 2011 la Primavera Araba travolse gli stati su cui gli USA fondavano la loro egemonia regionale ed emersero due opzioni controrivoluzionare contrapposte sostenute dai sauditi e dai qatariani – entrambi radicati nel bastione reazionario del Consiglio di Cooperazione del Golfo. I sauditi, tradizionalmente ultraconservatori, sostenevano la difesa dei regimi al potere schiacciando le rivolte – come fecero in Bahrain nel marzo 2011 – oppure negoziando dei compromessi in quei posti dove avevano buone relazioni con i capi del’opposizione, come avvenne invece in Yemen.

Il Qatar era il principale sostenitore della Primavera Araba e affermava di essere in grado di moderarla grazie alla sua influenza sulla Fratellanza Musulmana, che aveva approfittato del suo sostegno finanziario e mediatico per assumere un ruolo di primo piano nelle rivolte. In Tunisia, dove tutto era iniziato, il Qatar aveva aiutato la rivolta sostenendo Ennahda, la sezione locale dei Fratelli Musulmani, mentre i sauditi davano asilo al dittatore deposto Zine al-Abidine Ben Ali.

L’amministrazione Obama oscillava tra queste due posizioni: tollerava la repressione della rivolta in Bahrain ma sosteneva il compromesso in Yemen. Se le rivolte diventavano troppo forti cercava di cooptarle contando sulla Fratellanza Musulmana. Ciò avvenne in Egitto già da prima che Mohammed Morsi vincesse le elezioni presidenziali del maggio-giugno 2012 [3].

In Libia gli alleati europei di Washington, soprattutto Regno Unito e Francia, convinsero gli USA ad unirsi al bombardamento delle forze di Muhammar Gaddafi. Il Qatar partecipò ma i sauditi non lo fecero. Il caos che ne derivò dissuase Obama dal prendere parte al crollo di un altro stato. Si rifiutò di dare all’opposizione siriana i mezzi per contrastare l’aviazione, che era il principale vantaggio militare del governo di Asad, decidendo di non imporre una no-fly zone come invece avvenne in Libia e bloccò la fornitura di armamenti antiaerei all’opposizione. Di conseguenza regime di Asad era talmente sicuro della propria supremazia nei cieli da lanciare i barili bomba dagli elicotteri senza che nessuno potesse impedirglielo. Inoltre Obama delegò ai suoi alleati del Golfo e alla Turchia il compito di patrocinare l’opposizione siriana.

La reazione saudita

I sauditi non potevano sostenere Asad a causa della sua alleanza con l’Iran ma, come il Qatar, non potevano tollerare una rivoluzione democratica e laica così vicino ai loro confini. Decisero dunque di rimodellare l’opposizione siriana in accordo con i loro regimi reazionari e iniziarono a competere con l’asse turco-qatariano per finanziare il gruppi sunniti fondamentalisti (salafiti e jihadisti). Nel 2011 la rivoluzione siriana era schiacciata tra il regime di Asad (aiutato dalle milizie fondamentaliste sciite guidate dall’Iran e, dal 2015, dall’aviazione e dai missili russi) e i gruppi militari fondamentalisti sostenuti da Turchia, Qatar e regno saudita.

Nemmeno l’ascesa dell’ISIS (lo Stato Islamico), la presa di Mosul in Iraq e la proclamazione del califfato riuscirono a persuadere Obama, sebbene fosse spronato in tal senso, a sostenere delle forze armate arabe sunnite in Iraq e in Siria. Coloro che provarono a convincerlo sostenevano che ciò avrebbe sottratto consensi all’ISIS: infatti durante l’occupazione dell’Iraq gli USA riuscirono a sconfiggere lo Stato Islamico in Iraq (la precedente incarnazione dell’ISIS) armando e finanziando le milizie tribali arabe sunnite. In Siria invece hanno fatto affidamento sulle forze nazionaliste curde, con sommo dispiacere della Turchia.

Nemmeno l’ascesa dell’ISIS (lo Stato Islamico), la presa di Mosul in Iraq e la proclamazione del califfato riuscirono a persuadere Obama, sebbene fosse spronato in tal senso, a sostenere delle forze armate arabe sunnite in Iraq e in Siria.

La strategia di Obama era coerente con la sua politica di calmare l’Iran e di scommessa sulla fazione moderata e “riformista” del regime, una politica il cui caposaldo era l’accordo sul nucleare a cui aveva dato la priorità e che era riuscito ad ottenere nel luglio 2015 con i negoziati moderati da Russia, Cina, Germania e Francia. Obama intraprese questo percorso malgrado l’espansionismo iraniano, che già controllava l’Iraq, avesse cominciato ad operare in Siria dal 2013 tramite i suoi alleati regionali. L’indifferenza statunitense nei confronti di questo coinvolgimento scoraggiava i principale nemici regionali dell’Iran: Israele e il regno saudita.

La preoccupazione saudita raggiunse l’apice nel settembre 2014 quando Sanaa, la capitale yemenita, venne conquistata dagli Houthi, i filo-iraniani alleati con l’ex presidente Ali Abdullah Saleh [4]. In questo contesto preoccupante Salman bin Abdelaziz al-Saud assunse la guida del regno succedendo al suo fratellastro morto nel gennaio 2015. Re Salman, ottantenne, voleva che gli succedesse il suo figlio preferito, Mohammad Bin Salman (MBS), all’epoca non ancora trentenne, e lo nominò prima ministro della difesa e poi, nel luglio 2017, principe ereditario [5]. Il re e il principe decisero di dare una risposta vigorosa all’Iran intervenendo direttamente in Yemen e presentando un’unico fronte regionale sunnita grazie alle migliori relazioni con il Qatar e con un atteggiamento più morbido nei confronti della Fratellanza Musulmana.

L’intervento in Yemen

L’intervento militare guidato dai sauditi in Yemen, iniziato nel marzo 2015 al comando di MBS, ha mobilitato una coalizione che comprendeva il Qatar per aiutare un “legittimo” governo yemenita in cui partecipava anche la sezione locale dei Fratelli Musulmani. Infatti la Fratellanza è un elemento cardine del partito Al-Islah, con cui il nuovo regime saudita ha ristabilito i contatti dopo anni di ostracismo. Comunque tutto ciò ha creato tensioni con l’Egitto, dove il presidente Abdel Fattah al-Sisi è un acerrimo nemico della Fratellanza che ha contribuito a schiacciare nel suo paese. L’Egitto e gli EAU furono inflessibili su questo punto, visto anche che Muhammad Bin Zayed Al-Nahyan (MBZ), principe ereditario di Abu Dhabi e uomo forte della federazione, è egli stesso radicalmente anti-Fratellanza [6].

L’elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti ha ribaltato la situazione grazie alla nomina di consiglieri islamofobi che sostengono la linea dura contro la Fratellanza, raccomandando addirittura di classificarla come un’organizzazione terroristica. Ciò venne incoraggiato dagli EAU e dal loro ambasciatore nel paese che sostenne la campagna per indurre il Qatar a cessare qualsiasi sostegno ai Fratelli Musulmani.

Nel maggio 2017 durante il suo primo viaggio all’estero Trump venne accolto in pompa magna dai sauditi e fece pressione sui suoi ospiti per costringere il Qatar a tagliare i ponti con la Fratellanza e ad oscurare Al Jazeera. Neanche due settimane dopo il regno saudita, Bahrain, EAU ed Egitto ruppero ogni relazione diplomatica con il Qatar, bloccando inoltre il commercio e le linee di trasporto. Ciò ha provocato un gran chiasso ma si è concluso con un fiasco che dura tuttora. Da parte sua il Qatar, dopo essere stato espulso dalla coalizione in Yemen, ha fatto ricorso alle sue immense risorse finanziarie per adattarsi alla nuova situazione, grazie anche all’aiuto commerciale e militare della Turchia, suo alleato e co-patrocinatore della Fratellanza sin dall’inizio della Primavera Araba.

L’amministrazione Trump poteva tollerare la permanenza di Asad al potere sotto la tutela dei russi a patto che quest’ultimi aiutassero a cacciare le forze iraniane e i loro alleati fuori dalla Siria. Riyadh ha seguito questa politica sin dall visita di Trump: lo scorso ottobre re Salman è stato il primo governante saudita a visitare Mosca e, a giudicare dall’alto profilo dei membri della delegazione e dai contratti negoziati, ciò serviva a convincere il presidente Putin a cambiare la propria posizione sull’Iran. Un mese dopo Trump e Putin hanno partecipato al summit della Cooperazione Economica Asiatico-Pacifica in Vietnam e hanno firmato una dichiarazione congiunta sulla Siria, sostenendo il processo di Ginevra e ammettendo implicitamente di sostenere la presenza di Asad fino alla ratifica della nuova costituzione e allo svolgimento delle elezioni.

Nulla di tutto ciò che i sauditi hanno fatto in Qatar, Libano, Siria o Russia per compiacere Trump ha prodotto dei risultati.

Nel frattempo i sauditi hanno convocato il primo ministro libanese Saad Hariri, la cui famiglia è loro cliente [7], costringendolo a dimettersi. Stranamente l’annuncio è stato fatto a Riyadh il 4 novembre. Hariri nella sua dichiarazione ha criticato l’Iran e il suo alleato libanese, Hezbollah (con cui nel 2016 aveva formato un governo di unità nazionale), chiudendo dunque la cooperazione col partito sciita. Ciò fa tornare alla mente la dichiarazione di Trump fatta a Washington nel luglio 2017 in cui il presidente statunitense, con Hariri al suo fianco, criticava il Partito di Dio definendolo “una minaccia per lo stato libanese, il popolo libanese e l’intera regione”, paragonandolo inoltre ad ISIS ed Al-Qa’ida. Anche questa manovra si è conclusa con un fiasco: Hariri venne liberato dal presidente francese Emmanuel Macron e ritirò le dimissioni, anche se la sua coalizione di governo resta fragile ed estremamente vulnerabile alle crisi.

Tra Mosca e Riyadh sono emersi nuovi segnali di tensione riguardo la Siria: i sauditi, dopo un apparente sostegno al dialogo mediato dai russi tra regime ed opposizione, hanno rafforzato la propria posizione ed hanno indotto l’opposizione siriana a boicottarlo. In sostanza il destino della Siria dipenderà dai rapporti russo-statunitensi. Per ora l’atteggiamento degli USA si è indurito come dimostrato dal “Russiagate”, le nuove sanzioni e l’invio di armi all’Ucraina. Il tutto contro il volere di un irritatissimo Trump.

I sauditi, che stanno affrontando un caos senza precedenti nella politica statunitense, sono in una posizione difficile visto che la loro offensiva in Yemen è a un punto morto e ha provocato un disastro umanitario. La loro speranza di capovolgere la situazione rialleandosi con Saleh è svanita dopo che questi è stato ucciso dai suoi alleati lo scorso dicembre. Come se non bastasse è scoppiato un conflitto aperto tra le forze yemenite sostenute dalla coalizione a guida saudita e alcune fazioni sostenute da Abu Dhabi, diverse da quelle sostenute da Riyadh.

Nulla di tutto ciò che i sauditi hanno fatto in Qatar, Libano, Siria o Russia per compiacere Trump ha prodotto dei risultati. Il riconoscimento da parte degli USA di Gerusalemme come capitale di Israele ha messo in difficoltà la dirigenza saudita visto che sono stati costretti a fare pressione sull’Autorità Palestinese di Mahmoud Abbas per fargli accettare il diktat israeliano. L’isolamento internazionale di Trump riguardo l’Iran può solo aumentare questo rancore. Oggi la danza con le spade fatta insieme ai suoi ospiti sauditi è solo un lontano ricordo.

Gilbert Achcar è professore di studi dello sviluppo e relazioni internazionali alla SOAS, University of London. Il suo ultimo libro è Morbid Symptoms: Relapse in the Arab Uprising, Stanford University Press/Saqi Books, 2016.

[1] Philippe Descamps e Cécile Marin, ‘The mullahs’ asymmetric rule’, Le Monde diplomatique, edizione inglese, aprile 2016.

[2] Bernard Hourcade, ‘Iran returns to the world’, Le Monde diplomatique, edizione inglese, gennaio 2018.

[3] Gilbert Achcar, ‘The Muslim Brothers in Egypt’s “orderly transition”’, Le Monde diplomatique, edizione inglese, marzo 2011.

[4] Laurent Bonnefoy, ‘Yemen’s dangerous war’, Le Monde diplomatique, edizione inglese, dicembre 2017.

[5] Nabil Mouline, ‘Religious concessions in Saudi Arabia’, Le Monde diplomatique, edizione inglese, gennaio 2018.

[6] MBZ è nato nel 1961 ed è diventato capo dei servizi di sicurezza degli EAU durante agli anni ’90. Si vocifera che sia stato addestrato da ufficiali egiziani espatriati, il cui principale obiettivo interno era la Fratellanza Musulmana. MBZ ha accusato la Fratellanza di cospirare per un colpo di stato e ha diretto un giro di vite contro i suoi militanti e simpatizzanti nella federazione.

[7] Il padre di Saad Hariri, l’ex primo ministro libanese Rafiq Hairir assassinato nel 2005, ha fatto fortuna in Arabia Saudita grazie alla protezione di re Fahd bin Abdelaziz al-Saud.

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