Siria: la rivoluzione e i media

di Joseph Daher da Open Democracy

Il processo rivoluzionario siriano è la rivolta più documentata della storia, soprattutto grazie a questi media democratici.

Siria rivoluzione e media vignetta
2012, a caccia della libertà. 2017, la libertà viene cacciata via (l’uomo impugna una bandiera di Jaish al-Islam)

Prima della rivolta i media siriani erano nelle mani del regime e dominati dagli uomini d’affari legati ad esso, in seguito è nata una nuova scena mediatica legata al movimento di protesta e allo spazio democratico che quest’ultimo aveva aperto.

La rivolta ha permesso un processo generale di politicizzazione in ampi settori della società coinvolta nel processo rivoluzionario e ciò si è rispecchiato nella creazione di nuovi giornali, siti internet, blog, gruppi sui social network e così via.

Alcuni esistono ancora malgrado la repressione contro ciò che è rimasto del movimento di protesta, soprattutto da parte delle forze del regime di Asad e dei loro alleati. I movimenti democratici hanno anche sofferto delle pratiche autoritarie delle varie forze islamiche fondamentaliste.

Prima della rivolta

In Siria c’erano tre giornali controllati dal governo, una radio e una TV di stato, tutti impegnati a rafforzare la legittimità del regime di Asad. A partire dagli anni 2000 erano permessi anche i giornali panarabi al-Hayat e ash-Sharq al-Awsat così come alcune testate libanesi, giordane e del Golfo e una ristretta cerchia di riviste detenute da privati. Anche i partiti che sostenvano il regime e facevano parte del Fronte Nazionale Progressista erano autorizzati a pubblicare le loro riviste settimanali.

Comunque si era lontani dall’avere una stampa pluralista e libera: i mezzi di comunicazione privati erano detenuti da personalità legate al regime e il panorama mediatico non offriva un dibattito pubblico reale. Nel settembre 2001 il regime introdusse una nuova legge sulla stampa (il decreto 50/2001) che forniva al governo ampi poteri di controllo su tutto ciò che veniva prodotto nel paese: giornali, riviste e altri tipi di periodici, libri, volantini, poster eccetera. Nel 2010 Reporter Senza Frontiere aveva posto la Siria al 173° posto (su 178) nella classifica mondiale della libertà di stampa.

Le autorità non esitavano a censurare ciò che ritenevano potesse oltrepassare il limite: ad esempio al-Dommari, il primo quotidiano privato di proprietà del vignettista Ali Ferzat, nel 2001 potè riprendere le pubblicazioni dopo quasi quarant’anni. Il 17 giugno 2001 andò in edicola con due pagine bianche quando il Primo Ministro Muhammad Miro prese come un’offesa personale un articolo ritenuto critico dell’operato governativo. Successivamente ordinò di censurare un articolo che parlava di un prossimo rimpasto di governo. [1]

In quel breve periodo dal 2000 al 2001 noto come la “Primavera di Damasco” a un membro dell’opposizione come Michel Kilo era permesso pubblicare articoli critici contro il regime sulla stampa locale in mano al governo, soprattutto al-Thawra, per poi finire di nuovo nella morsa della repressione.

Durante tutti gli anni 2000 fino alla vigilia della rivolta la repressione contro i blogger critici del regime era la norma. Ad esempio Kamal Cheikho, un militante e blogger curdo, venne arrestato nel giugno 2010. La blogger Tal Mallouhi venne arrestata nel dicembre 2009 e nel febbraio 2011 il Tribunale per la Sicurezza dello Stato la condannò a cinque anni di carcere accusandola di essere una spia al soldo di un paese straniero, cioè una scusa per punire le sue attività on-line. Nel suo blog scriveva poesie e saggi incentrati sulle sofferenze dei palestinesi e sulle restrizioni della libertà d’espressione.

Nel febbraio 2011 fu il turno di Ahmad Hadifa, meglio noto come Ahmad Aboul-Kheir, che venne arrestato per alcuni giorni dopo aver pubblicato sul suo blog alcuni metodi per aggirare il blocco dei siti internet censurati dalle autorità. Era il periodo in cui gli articoli sulle rivoluzioni scoppiate in Tunisia e in Egitto potevano estendere il contagio agli altri paesi della regione.

Comunque c’erano alcuni gruppi in rete e sul campo che cercavano di promuovere degli ideali democratici e progressisti. Il Gruppo Al-Thara ad esempio fu il primo sito internet a promuovere i diritti delle donne e dei bambini. Tra il 2005 e il 2011 avevano addestrato più di sessanta giornalisti nell’arte di creare dei mezzi di comunicazione liberi, oltre a partecipare insieme ad altre organizzazioni a campagne congiunte come quella contro il delitto d’onore o alla stesura del rapporto alternativo per la Conferenza Mondiale sulle Donne di Pechino del 2010. Le persone che lavoravano in questi siti spesso partecipavano alle attività femministe della società civile, come conferenze, manifestazioni e seminari. Hanno svolto un ruolo importante nel creare nuove prospettive per l’avanzamento dei diritti delle donne in Siria tramite gli scambi sociali che avevano luogo sui loro siti. [2]

Il regime temeva gli attivisti che discutevano di tematiche politiche, soprattutto quelle di orientamento democratico e progressista che attraevano siriani dai retroterra religiosi ed etnici più disparati. Ad esempio nel giugno 2007 quando sette studenti appartenenti a varie correnti religiose (tra cui due alawiti) vennero condannati al carcere per aver discusso su internet della riforma politica, l’ufficiale che li aveva arrestati spiegò che «questi giovani sono più pericolosi di al-Qa’ida perchè provengono da tutte le sette». Questa strategia di repressione sarebbe stata attuata anche durante la rivolta: furono proprio i settori democratici e progressisti del movimento popolare ad essere colpiti per primi.

I magnati dei media

Allo stesso modo i nuovi mezzi di comunicazione “privati” nati nel 2000 in seguito all’ascesa al potere di Bashar Al-Asad non creavano assolutamente uno spazio per un dibattito aperto e democratico.

I magnati più influenti erano un assortimento di ricchi uomini d’affari strettamente legati alla classe dirigente politica, militare e imprenditoriale del regime. Tra questi c’erano Rami Makhlouf, Majd Bahjat Sulayman, Bilal Turkmani (figlio del ministro della difesa Hassan Turkmani), Mohamed Saber Hamsho, Aktham Ali Duba e il magnate dell’acciaio Ayman Jaber.

Rami Makhlouf aveva fondato il quotidiano Al-Watan, Majd Bahjat Sulayman, proprietario del più grande impero mediatico del paese, era il direttore esecutivo del Gruppo Alwaseet e presidente del Gruppo Unito per l’Editoria, la Pubblicità e il Marketing. Ayman Jaber e Mohamed Saber Hamsho insieme ad altri imprenditori siriani avevano creato Ad-Dunia TV e il canale satellitare Sama. Aktham Ali Douba, figlio dell’ex capo dei servizi segreti, aveva fondato il quotidiano e rivista al-Riyadiya con un evidente monopolio sulla pubblicità sportiva. [3]

Questi stessi capitalisti clientelari all’inizio hanno finanziato le manifestazioni di massa e le campagne di pubbliche relazioni del regime mentre i loro mezzi di comunicazione cercavano di indebolire il messaggio dei manifestanti diffamando il movimento di protesta e promuovendo la propaganda del regime.

Copertina di Enab Baladi

L’ascesa dei media rivoluzionari

Soprattutto i primi due anni della rivolta sono stati caratterizzati da un’ondata di resistenza civile che ha assunto varie forme, tra cui quella della controinformazione. In questo periodo c’è stata un’impennata dei giornali liberi in tutto il paese, specialmente nelle zone liberate dal regime. Il fenomeno del giornalismo partecipativo è cresciuto a dismisura e il riportare le notizie divenne un atto elementare di resistenza compiuto dai siriani durante la loro rivolta contro il regime di Asad. Con il passare del tempo il video-attivismo si è evoluto in una scena giornalistica locale fatta di piccoli giornali e stazioni radiofoniche on-line che trasmettevano apertamente nelle aree liberate e clandestinamente in quelle sotto il controllo del regime. Alla fine del 2011 il Syrian Media Action Revolution Team (SMART), nato come rete di supporto per i giornalisti attivisti e poi divenuto un’agenzia di stampa, distribuiva equipaggiamento (modem satellitari per connettersi ad internet e telefoni) e teneva corsi di scrittura e produzione via Skype. Questa organizzazione ha dato aiuto a circa 400 attivisti-giornalisti.

I villaggi e le città in rivolta davano vita a piccoli giornali locali, come Ossigeno nella città di Zabadani; alcuni furono in grado di raggiungere un pubblico più ampio in tutto il paese, come Enab Baladi (l’uva del mio paese), un giornale di Daraya e Damasco fondato alla fine del 2011 da un gruppo di 30 intellettuali e attivisti (tra cui 14 donne), [4] oppure Souriatna (La nostra Siria) gestito da Istanbul. In modo simile gli attivisti dentro e fuori il paese hanno creato numerose radio locali. Ad esempio a Kafranbel (provincia di Idlib) l’attivista Raed Fares creò Radio Fresh, organizzata come un media center e una rivista trimestrale. “Sawt Raya”, con sede a Istanbul, venne fondata da Alisar Hasan assieme a un gruppo di giornalisti siriani che mandavano in onda notiziari ed altri programmi. ANA Radio nacque agli inizi del 2012 da ANA New Media Association con lo scopo di incrementare il giornalismo partecipativo.

La famosa giornalista Zaina Erhaim ha lavorato per lungo tempo in Siria e si è unita all’Institute for War and Peace Reporting (IWPR) [5] aiutando a creare una serie di blog che raccontavano la storia della rivolta e della guerra attraverso gli occhi delle donne. Ha anche tenuto corsi per centinaia di cittadini-reporter (un terzo delle quali donne) sul giornalismo scritto e televisivo. È stata anche la mente di “Syria’s rebellious women”, una serie di cortometraggi che raccontavano le storie delle donne che sono diventate dirigenti e capi della rivoluzione.

Secondo lo SMART nel settembre 2014 c’erano circa 500 riviste stampate, [6] venti stazioni radio e almeno 298 quotidiani sparsi per tutto il paese. [7]

Anche alcuni attori politici e sociali curdi, come Radio Arta, cercavano di far udire le loro voci malgrado siano stati vittime delle forze armate del PYD almeno due volte nel 2014 e nel 2016. Nelle zone controllate dal PYD si stava cercando di creare una vivace scena informativa malgrado l’aspra competizione proveniente dagli organi di stampa dell’autogoverno curdo (come Ronahi TV, Orkes FM e Hawar News Agency) che sono più numerosi e meglio finanziati.

I giornalisti democratici e i cittadini che si occupavano di informazione erano bersagli del regime a causa del loro ruolo nell’informare il mondo dei crimini e delle estorsioni commessi dai servizi di sicurezza. Da marzo 2011 ad aprile 2014 il Violation Document Center, una rete di attivisti dell’opposizione siriana che monitora le violazioni dei diritti umani perpetrate dall’inizio della rivolta, ha documentato la morte di 307 giornalisti ad opera delle forze e delle milizie del regime. Secondo i mezzi di informazione del Golfo la Siria è il paese più pericoloso al mondo per i giornalisti.

I mezzi di informazione del Golfo promuovono il settarismo

I neonati mezzi di informazione democratica dovevano affrontare anche altri nemici: le monarchie del Golfo e i loro organi di stampa promuovevano una chiave di lettura settaria della rivolta cercando di trasformarla in un conflitto religioso tra sciiti e sunniti ospitando in televisione numerosi sceicchi salafiti. Già dal 25 marzo 2011 Youssef Qaradawi, uno sceicco salafita egiziano che abita in Qatar, vicino alla Fratellanza Musulmana e conduttore di un programma settimanale su al-Jazeera, dichiarava:

«Il presidente Asad tratta il suo popolo come se egli fosse sunnita. Egli è giovane ed istruito e sarebbe in grado di fare molto, purtroppo è prigioniero del suo entourage e della sua setta religiosa». [8]

All’inizio della rivolta i manifestanti contestavano la retorica settaria sdoganata dai canali televisivi del Golfo, come lo slogan “il sangue sunnita è uno”, lanciando cori a favore dell’unità del popolo siriano.

Nel maggio 2013 durante un raduno in Qatar lo sceicco Qaradawi proclamò il jihad contro il regime siriano richiedendo ai musulmani sunniti di unirsi alla lotta contro il presidente Bashar al-Asad e i suoi sostenitori alawiti. Inoltre definì la setta alawita come “più infedele dei cristiani e degli ebrei” e chiese “Com’è possibile che cento milioni di sciiti [in tutto il mondo] possano sconfiggere un miliardo e settecendo milioni [di sunniti]?”. [9] Allo stesso modo la Rabitat al’alam al-islami (Lega musulmana mondiale), un’associazione di chierici fondata nel ’62 ed utilizzata come strumento della politica estera saudita, ha ripetutamente descritto il regime siriano come un “regime criminale nusairi” [Nome di un’antica setta sciita utilizzato anche come termine dispregiativo per indicare gli alawiti NdT] e ponevano l’accento sull’obbligo di sostenere i musulmani in Siria e salvarli dalla “cospirazione settaria”. In altre parole dagli sciiti. [10]

Faisal al-Qassim, un presentatore di Al-Jazeera, mandò in onda un filmato in cui si spiegava perchè i siriani alawiti meritassero un genocidio, mentre al-Arabiya accolse il chierico salafita siriano Adnan al-Arour che aveva promesso di fare a pezzi gli alawiti e di darli in pasto ai cani. [11]

I movimenti fondamentalisti islamici avevano i loro mezzi di comunicazione e strumenti di propaganda anche nel paese per promuovere la loro narrazione reazionaria e settaria e non esitavano a reprimere e incarcerare i giornalisti indipendenti che criticavano le loro azioni e le loro politiche e a vietare le riviste dei gruppi di opposizione.

Nell’agosto 2017 la rivista “Innalzarsi per la libertà” venne messa fuorilegge nella Douma e due suoi redattori vennero spediti in carcere da un tribunale controllato dall’organizzazione salafita Jaish al-Islam. Nel marzo 2017 vennero chiusi gli uffici della rivista e delle ONG, tra cui il VDC che venne poi chiuso di nuovo a metà di agosto dopo aver subito un attacco alla propria sede. Ricordiamo che Jaish al-Islam è l’autorità che governa la Ghouta orientale e sin dall’inizio ha invischiato lo staff di “Innalzarsi per la libertà” in una serie di cause legali.

Sfortunatamente anche alcuni media dell’opposizione hanno occasionalmente promosso una retorica settaria: ad esempio Orient TV, di proprietà dell’imprenditore in esilio Ghassan Abboud ben noto per le sue polemiche settarie, nel maggio 2015 presentò il massacro di più di 40 civili (sunniti, ismailiti e alawiti) compiuto dall’ISIS nella città di Majaoubé come un atto contro le forze del regime. Questa lettura dell’evento ha provocato una grande controversia visto che puntava a giustificare un crimine settario.

Anche i bastioni “pro regime” criticano la burocrazia

Come ho detto prima la rivolta ha portato al prolificare dei mezzi di informazione indipendenti gestiti dagli attivisti. Una dinamica rinnovatrice è avvenuta anche nei cosiddetti “bastioni pro regime”: a fianco degli strumenti ufficiali dello stato e dell’Esercito Elettronico Siriano, controllato dal regime, i mezzi di informazione e le pagine Facebook filo-Asad sono aumentate a dismisura e hanno avuto un impatto sul panorama degli organi di stampa tradizionali.

Questi nuovi organi di stampa di solito pubblicano i loro contenuti facendo affidamento su Internet, soprattutto i social network come Facebook: ciò gli permette di aggirare le lunghe pratiche burocratiche ancora in vigore nelle zone controllate dal regime per ottenere una licenza. Queste pagine Facebook filo-regime spesso si basano su una rete di persone di uno specifico villaggio, quartiere o città ed operano autonomamente dal controllo del regime e dei suoi quadri dirigenti. Di solito rafforzano la narrazione governativa e sono diventate una fonte fondamentale per informarsi sui movimenti militari o quegli eventi locali che spesso non sono coperti dai mezzi di informazione di stato. Il ricercatore Antun Issa li spiega così: «Rappresentano “l’umore” delle comunità che sostengono il governo e quindi possono essere visti come un barometro del suo sostegno».[12]

È anche successo che queste pagine o questi organi di stampa abbiano criticato alcuni settori del regime e condannato alcuni suoi comportamenti. Ad esempio la pagina “La corruzione in Siria nell’epoca della riforma” con un post su Facebook ha aspramente criticato i mezzi di informazione statali, etichettati come “traditori” per aver negato le vittorie militari dell’opposizione ad Aleppo nell’agosto 2016. [13] Alcuni mesi dopo i sostenitori del regime hanno utilizzato i social network per mostrare i saccheggi compiuti dalle milizie del regime in alcuni quartieri della città. [14]

Un altro esempio è il rapporto apparso su Baladna News nell’aprile 2016 che, sebbene sostenesse le elezioni parlamentari indette dal governo per quel mese, poneva due critiche significative: 1) molte persone non avrebbero potuto votare a causa delle condizioni di sicurezza; 2) c’era insoddisfazione per alcuni candidati prendendo atto che erano già stati parlamentari e avevano fatto ben poco per soddisfare i bisogni dei cittadini. Altri rapporti avevano messo in primo piano il problema della corruzione in vari ambiti, tra cui quello dei prezzi del grano e delle telecomunicazioni.

Nel febbraio 2017 il governo ricevette una nuova ondata di critiche in seguito a una crisi energetica su scala nazionale, soprattutto nella provincia costiera di Latakia dove la maggior parte delle pompe di benzina vennero chiuse per mancanza di carburante. Molti autisti di minibus scioperarono mentre i miliziani, il personale della sicurezza e dell’esercito monopolizzavano la poca benzina disponibile. I social media lealisti criticavano duramente il governo Khamis e il ministro del petrolio per la loro vuota promessa di garantire l’approvvigionamento energetico civile. [15]

Malgrado queste critiche sporadiche il regime non ha mai attuato alcuna forma di repressione nei loro confronti. Sebbene questi mezzi di comunicazione filo-regime non costituiscano un nuovo panorama indipendente dell’informazione, visto il loro sostegno all’Esercito Arabo Siriano e alla leadership di Asad, il fatto che queste critiche esistano è uno sviluppo importante che indica un mutamento nell’ecosistema mediatico che è più rappresentativo delle opinioni della comunità piuttosto che una semplice macchina di propaganda dominata dal regime e dai suoi consociati.

La libertà di informazione nelle regioni controllate dal regime subisce maggiori restrizioni rispetto a quelle controllate dall’opposizione, a parte quelle in mano allo Stato Islamico. Ciò non ha impedito ai nuovi metodi di copertura mediatica nati e cresciuti con la rivolta di porre le basi per un mutamento della cultura dell’informazione nel dopoguerra.

Nel prossimo futuro le forze del regime non avranno problemi nello schiacciare tutte le forme di informazione indipendente ma è difficile immaginarle mentre colpiscono quei loro sostenitori che ormai hanno una forte presenza on-line e sono stati determinanti nel promuovere la retorica e la propaganda del regime tra i siriani dentro il paese. Ciò ha assicurato che possa sopravvivere una nuova cultura dell’informazione aperta, sebbene nella sfera di controllo del regime, e qualche forma di tolleranza nei confronti delle critiche che continueranno ad emergere. [16]

Conclusione

Le rivolte del 2011 hanno motivato i siriani a scendere in strada per chiedere libertà e dignità. La crescita di questo movimento di protesta ha permesso all’informazione democratica di espandersi riflettendo le nuove energie sul campo.

Sfortunatamente la repressione ha portato a una riduzione di questo tipo di informazione, che oggi è in gran parte fuori dal paese sebbene ancora resistano alcune piccole sacche all’interno. Comunque c’è ancora speranza: il processo rivoluzionario siriano è la rivolta meglio documentata della storia, soprattutto grazie a questi organi di informazione democratici.

C’è abbondanza di testimonianze sul movimento di protesta, su chi ne faceva parte e dei loro metodi di azione. Negli anni ’70 e ’80 in Siria c’è stata una forte resistenza popolare, democratica e di massa con grandi scioperi e manifestazioni in tutto il paese, sfortunatamente non ne è rimasto nulla e le nuove generazioni scese in piazza nel 2011 ne sapevano ben poco. Comunque il ricordo della rivolta scoppiata nel marzo 2011 rimarrà e servirà non solo per guardare al passato ma anche per trarne una lezione per costruire una resistenza futura. Le esperienze politiche accumulate dall’inizio della rivoluzione non scompariranno.

Joseph Daher è un militante socialista svizzero-siriano, un docente universitario e fondatore del blog Syria Freedom Forever. È l’autore di Hezbollah: Political Economy of the Party of God (2016, Pluto Press).

[1] George, Ala, (2003), Syria, neither Bread, neither Freedom, Londra, Zed Books

[2] Aous (al-), Yahya (2013), “Chapter 3: Feminist Websites and Civil Society Experience”,in Kawakibi S. (ed.) Syrian Voices From Pre-Revolution Syria : Civil Society Against all Odds, HIVOS and Knowledge Programme Civil Society in West Asia. (pdf.). pp. 23-28

[3] Iqtissad (2015), “Interview: Mohamad Mansour – How Syria’s Media Tycoons, Control the Market”, (online).

[4] Nel giugno 2016 Enab Baladi era un settimanale stampato in settemila copie e un sito internet con 250 mila visite mensili.

[5] L’IWPR è un’organizzazione che sostiene i giornalisti in zone di conflitto che scrivono di diritti umani e giustizia.

[6] Eagar, Charlotte (2014), “An independent Syrian Media Comes of Age at a Time of War”, Newsweek, (online).

[7] Issa, Auntun (2016), “Syria’s New Media Landscape, Independent Media Born Out of War”, The Middle East Institute, MEI Policy Paper 2016-9, (pdf.) p. 3

[8] Satik, Niruz (2013), “Al-hâla al-tâ’ifîyya fî al-întifâda al-sûrîyya al-massârât al-înmât”, in Bishara A. (ed.), Khalfîyyât al-thawra al-sûrîyya, dirâsât sûrîyya, Doha, Qatar, Arab Center For Research and Policy Studies, p. 396

[9] Pizzi, Michael and Shabaan, Nuha (2013), “Under sectarian surface, Sunni backing props up Assad regime”, (online).

[10] Muslim World League (2013), “The MWL’s Statement on the Escalation of Violence in Syria, and participation of Hezbollah and its Allies in the Killing of its people”, (online).

[11] Carlstrom, Gregg (2017), “What’s the Problem With Al Jazeera?”, The Atlantic, (online).

[12] Issa, Auntun (2016), “Syria’s New Media Landscape, Independent Media Born Out of War”, The Middle East Institute, MEI Policy Paper 2016-9, (pdf.). p. 18

[13] Ibid, p.19

[14] Hayek, Vincent and Roche, Cody (2016), “Assad Regime Militias and Shi’ite Jihadis in the Syrian Civil War”, Bellingcat, (online).

[15] Zaman al-Wasl (2017b), “Fuel Crisis Stokes Resentment from Loyalists in Lattakia Province”, The Syrian Observer (online), 10 February.

[16] Issa, Auntun (2016), “Syria’s New Media Landscape, Independent Media Born Out of War”, The Middle East Institute, MEI Policy Paper 2016-9, (pdf.).

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