La fine della solidarietà tra arabi e curdi in Siria

Curdi, assiri e arabi manifestano contro il regime siriano a Qamishli
Curdi, assiri e arabi manifestano contro il regime siriano a Qamishli. 06/01/2012 (KurdWatch.org)

di Loubna Mrie da Al-Araby Al-Jadeed

Nel 2011 nei territori controllati dall’opposizione la bandiera dell’indipendenza siriana (che aveva sostituito quella baathista) sventolava a fianco della bandiera curda. Ad Amuda e Qamishli i curdi cantavano slogan in solidarietà con i loro fratelli arabi. Gli attivisti arabi facevano lo stesso: nei loro villaggi e città si scandivano sempre dei cori curdi.

Molti attivisti curdi aiutavano gli arabi che vivevano sotto assedio fornendogli cibo e medicine, inoltre, soprattutto nelle grandi città come Damasco e Aleppo, accoglievano le famiglie sfollate da Homs e Deraa. Un esempio era il movimento al-Ta’khi che era composto da studenti dell’università di Aleppo ed era molto attivo in città e nei suoi sobborghi, per questo molti sui membri vennero imprigionati dai servizi segreti di Asad.

Il loro contributo alla lotta contro il regime non si limitava alla società civile: agli inizi del 2012 i combattenti curdi hanno aiutato l’Esercito Siriano Libero a sottrarre alcune zone come Aleppo est (in cui ci sono quartieri come Sheikh Najjar con una numerosa popolazione curda) al controllo del governo siriano. Il quartiere curdo di Sheikh Maqsud venne anche parzialmente integrato nell’Aleppo liberata. Nelle basi militari curde sventolava la bandiera dell’Esercito Siriano Libero.

Ma negli anni seguenti il regime ha trovato degli alleati curdi e i due popoli si sono messi gli uni contro gli altri. Il Partito dell’Unione Democratica (PYD), che oggi controlla numerose zone curde, non ha mai sostenuto la rivoluzione: nel luglio 2012 ha raggiunto un accordo con il regime per rafforzare il controllo sui suoi territori promettendo in cambio di non appoggiare l’opposizione. In seguito ha anche combattuto contro le unità dell’ESL.

La spaccatura

Anche le forze rivoluzionarie curde si sono rivoltate contro l’ESL: alla fine del 2016 le loro milizie aiutarono attivamente il regime di Damasco a riconquistare Aleppo Est. Divennero evidenti anche le divisioni della società civile: gli arabi e i curdi davano la precedenza ai rispettivi gruppi etnici piuttosto che continuare a lavorare insieme. Il risultato fu che ai giornali locali arabi venne impedito di coprire le regioni a maggioranza curda, mentre gli attivisti venivano arrestati e interrogati per essere entrati nei rispettivi territori. Sia la sicurezza interna curda che l’ESL hanno arrestato delle persone in base alla città di nascita, che in Siria è un chiaro indicatore di appartenenza etnica.

Per analizzare la natura mutevole dei rapporti arabo-curdi in Siria bisogna guardare al ruolo svolto dal governo siriano, da quello turco e dai gruppi militanti come lo Stato Islamico, Ahrar al-Sham e il Fronte al-Nusra. Non possiamo analizzare la questione come se fosse una cosa fissa o statica: infatti questa relazione è cambiata drasticamente con l’evolversi del conflitto, visto che la guerra spesso ha le sue logiche intrinseche. Il suo deteriorarsi è il risultato degli interessi transnazionali e stranieri e delle tattiche messe in atto dal regime in un contesto di guerra.

Non possiamo comprendere le origini di queste divisioni senza guardare alle potenze straniere e ai loro finanziamenti per le forze ribelli arabe sunnite. La Turchia, che ha sostenuto a lungo l’ESL, è il principale paese attraverso il quale è passato questo sostegno. Sfortunatamente l’oppressione dei curdi in Turchia ha influenzato i curdi siriani e ha di conseguenza aggravato le divisioni etniche nel paese.

Visto che l’opposizione siriana ha un disperato bisogno del sostegno turco è stata costretta a sposare la linea di Ankara, che spesso non coincide con il bene del popolo siriano: uno dei suoi più grandi errori fu quello di cedere alle pressioni turche e di escludere l’opposizione curda dal Consiglio Nazionale Siriano (CNS). Ciò ha portato alla loro sottorapresentazione politica, anche se c’era una parte consistente dell’opposizione politica curda che voleva unirsi al CNS.

È molto importante notare che la Turchia non stava solamente sostenendo l’opposizione armata ma era anche l’unico paese che offriva all’opposizione politica uno spazio sicuro dove incontrarsi. Ciò ha costretto l’opposizione a chiudere un occhio sulla lotta curda per non mettere a rischio il rapporto con la Turchia.

In effetti la Turchia ha avuto un ruolo di primo piano nel peggiorare la divisione arabo-curda, seguita poi dal governo siriano: la collusione del regime con il PYD ha indotto Damasco a non attaccare le zone curde. Qamishli, la più grande città in mano ai curdi, somiglia a Damasco in quanto non ha sofferto quasi alcun danno alle infrastrutture: gli ospedali, le scuole e i negozi sono ancora in funzione. Anche il commercio resta relativamente normale.

Nel frattempo tutte le altre città perse dal regime sono state assediate e bombardate. Il fatto che le città curde non fossero dei bersagli indica una strategia più ampia per dividere l’opposizione. Prima della rivoluzione i curdi hanno sempre subito una discriminazione sistematica: le loro regioni erano completamente dimenticate e in più di trecentomila erano privati della cittadinanza. Questa strategia ha convinto i curdi a sposare la narrazione del regime, cioè che la rivoluzione era una copertura per la conquista del paese da parte dei jihadisti.

Anche lo Stato Islamico, Ahrar al-Sham, alcuni gruppi dell’ESL e il Fronte al-Nusra/HTS/al-Qa’ida hanno partecipato a questa divisione: hanno tutti attaccato le aree curde liberate per provare a impossessarsi dei pozzi petroliferi. Quando questi gruppi conquistavano un villaggio provavano ad imporre le loro regole e la propria ideologia: cominciavano a chiedere alle donne di coprirsi il capo, prendevano di mira i cristiani e in alcune città, come Ras al-Ayn, hanno anche bruciato le chiese.

A tutto ciò sono seguite solo deboli condanne da parte dei dirigenti dell’opposizione sostenuta dai turchi e dagli americani, che non potevano palesemente condannare tali atti per non perdere il sostegno della Turchia che è anche uno dei principali sostenitori di Ahrar al-Sham.

Questa esclusione deliberata è esattamente ciò che ha portato l’etnocentrico PYD ad aumentare la propria popolarità, visto che combatteva per espellere Ahrar al-Sham e il Fronte al-Nusra dai villaggi curdi che erano stati conquistati e terrorizzati. Si può affermare che il PYD, un gruppo fondato su base strettamente etnica, ha guadagnato consensi a causa degli errori commessi dall’opposizione e non perché la maggior parte dei curdi voleva l’autonomia o la secessione.

Come qualsiasi gruppo oppresso in molti hanno salutato i loro salvatori, anche se questi stavano combattendo per un’altra causa. La maggior parte della popolazione curda ha dovuto adottare l’ideologia del PYD e sostenere l’autonomia del Rojava (la parola curda che indica il nord della Siria) dopo aver visto il trattamento riservatole dall’opposizione araba siriana.

Per i curdi testimoni delle violazioni e le atrocità commesse da questi gruppi gli arabi sono improvvisamente diventati il loro nemico. Questa comprensibile sfiducia ha anche portato alla discriminazione contro i civili arabi sunniti che vivevano o si rifugiavano nelle zone controllate dal PYD.

Si è molto discusso se l’operazione del governo turco nel nord della Siria chiamata “Scudo dell’Eufrate” puntasse a controbilanciare la potenza militare curda oltre all’obiettivo dichiarato di combattere lo Stato Islamico: l’offensiva contro le posizioni dell’ISIS e del PYD ha comportato la partenza di migliaia di ribelli dal fronte di Aleppo proprio mentre la città stava per cadere completamente in mano al regime. Il governo turco, che era il principale sponsor dei combattenti dell’opposizione, ha a malapena reagito alla conquista della città più importante sotto il controllo dei ribelli.

Sebbene il governo siriano non l’abbia mai attaccata, la propaganda di stato ancora nega l’esistenza di un’autonomia curda ed è molto probabile che in futuro ci sarà un confronto diretto. È degno di nota il fatto che le SDF, che di fatto sono una copertura delle YPG, ancora adottino la bandiera rivoluzionaria.

La maggior parte dei commentatori, degli “esperti” e dei giornalisti hanno raccontato questi avvenimenti solo attraverso la lente della “lotta all’ISIS”, cosa non completamente ingiustificata visto che i curdi sono stati forse la forza più efficace nel combattere lo Stato Islamico: ciò si può attribuire al fatto che hanno una forte dedizione ideologica, esperienza di combattimento e il sostegno militare dell’occidente. I gruppi militari curdi in Siria sono stati ampiamente studiati ed esaltati per i loro eroici sacrifici, per le loro donne combattenti e, in misura minore, per l’ideologia del PKK di Abdulah Ocalan.

Le YPG sono state anche ampiamente assolte dai crimini commessi nei villaggi arabi con il pretesto di “combattere l’ISIS”. Ciò non dovrebbe mai essere un motivo per dimenticare le varie violazioni dei diritti umani che sembrano essere ampiamente ignorate dai media.

Finora solo Human Rights Watch, Amnesty International, The Washington Post e la stampa locale siriana hanno parlato di questi abusi e comunque non guardano alla questione in un contesto storico e non prestano attenzione alle più ampie forze transnazionali, che sono l’elemento più importante per comprendere la divisione tra arabi e curdi in Siria.

Ignorare questi elementi significa reificare le differenze etniche, concettualizzare i rapporti tra i siriani curdi e arabi come statici e astorici e negare una storia di solidarietà condivisa.

Non si può negare che gli arabi e i curdi siano stati entrambi vittime della repressione statale, dunque siamo alleati naturali. È il cinico gioco delle grandi potenze che ha messo gli arabi contro i curdi e viceversa.

Loubna Mrie è un’attivista siriana che ha partecipato alle fasi iniziali della rivoluzione. In seguito è stata fotoreporter e seguiva il conflitto in corso per conto della Reuters. Oggi vive a New York dove è una ricercatrice e commentratrice sulle questioni siriane e mediorientali e sta studiando alla NYU. I suoi articoli sono stati pubblicati dai principali organi di stampa, tra cui the Washington Post, Foreign Affairs, Foreign Policy e New Republic.

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