I kibbutz non sono il socialismo

Una cerimonia in un kibbutz israeliano nel luglio del 1951 (Wikimedia Commons)
Una cerimonia in un kibbutz israeliano nel luglio del 1951 (Wikimedia Commons)

I laburisti sionisti hanno provato a costruire un’utopia comunitaria finendo invece per creare una forma di nazionalismo etnico

di Seraj Assi, da Jacobin Magazine

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Durante le primarie democratiche i principali mezzi di comunicazione hanno cercato di inquadrare l’autoproclamato socialismo di Bernie Sanders. In molti si sono aggrappati alla sua attività di volontariato in un kibbutz ebraico in Israele: “Trovato il kibbutz di Bernie Sanders. Sorpresa: è socialista” recitava uno dei titoli del New York Times.

Ma il suo viaggio del 1963 era meno illustrativo di quanto il Times e molti altri immaginavano: i kibbutz – e il sionismo laburista che li animavano – erano tutto tranne che una sorta di paradiso socialista.

Nei piani dei suoi fondatori il kibbutz (che in ebraico significa “raduno”) doveva essere una comunità utopica rurale in cui gli ideali comunitari ed egualitari si sarebbero fusi con il sionismo e il nazionalismo ebraico. In questa comunità collettiva e volontaria gli ebrei appena arrivati avrebbero goduto del possesso congiunto della proprietà, dell’eguaglianza economica e della cooperazione nella produzione. La massima “Ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni” avrebbe regnato sovrana.

I kibbutznik (membri dei kibbutz) erano giovani sionisti idealisti che erano emigrati dall’Europa in Palestina agli inizi del ventesimo secolo. Illudendosi di essere dei rivoluzionari erano impazienti di realizzare la visione dei fondatori del movimento, cioè di integrare il socialismo e il nazionalismo ebraico.

Comunque ciò che edificarono era la negazione del socialismo: proprio come è successo con il laburismo sionista (la principale forza motrice del movimento dei kibbutz prima della fondazione di Israele) l’elemento nazionalista ha rapidamente prevalso sugli ideali egualitari. Ciò che era iniziato come un tentativo di costruire un’utopia socialista ha finito per cedere il passo ad una forma oppressiva di nazionalismo etnico.

La costruzione del socialismo sionista

Forse la migliore confutazione delle cosiddette basi socialiste del kibbutz viene direttamente dagli stessi progenitori del sionismo laburista.

Fondato nel 1899 dopo il terzo Congresso Sionista il laburismo sionista cercava di risolvere la cosiddetta questione ebraica agevolando il trasferimento di massa e l’insediamento degli ebrei europei nella Palestina ottomana. I primi teorici europei – in particolare Dov Ber Borochov – credevano che il sionismo avrebbe liberato il popolo ebraico sia dal punto di vista economico che storico terminando definitivamente secoli di oppressione e consideravano l’ascesa del capitalismo mondiale come uno sprone per gli ebrei europei a migrare in massa in Palestina, dove la lotta di classe del proletariato ebraico sarebbe culminata nella liberazione nazionale.

All’epoca i socialisti sionisti si distinguevano dal Congresso Sionista di Theodor Herzl, che era contrario a mettere insieme il nazionalismo ebraico con il socialismo. Nel campo socialista sionista c’erano marxisti ortodossi come Moses Hess e Ber Borochov, socialisti non marxisti come Nachman Syrkin e A.D. Gordon e socialisti populisti come David Ben-Gurion e Berl Katznelson.

L’irrisolvibile tensione presente nel cuore del movimento dei kibbutz era evidente addirittura nel caso di gente come Hess, che fu uno dei primi compagni di Marx ed Engels. Roma e Gerusalemme, un suo libro del 1862, era più un manifesto per la colonizzazione che un pamphlet socialista e celebrava il ritorno messianico degli ebrei in Palestina. Infatti Hess sosteneva che nel caso in cui l’emancipazione ebraica ed il nazionalismo ebraico fossero inconciliabili bisognava mettere da parte la prima. C’è poco da sorprendersi se Marx ed Engels hanno apertamente sconfessato il loro vecchio compagno denunciandolo come un “sostenitore della società borghese”.

Però per i suoi sostenitori Hess era più un santo che un reietto: Roma e Gerusalemme divenne un testo fondamentale per i sionisti laburisti e i fondatori di kibbutz nel Mandato di Palestina. Nachman Syrkin, il “padrino intellettuale del sionismo laburista“, divenne suo discepolo.

Syrkin sosteneva che la liberazione si potesse ottenere soltanto tramite la creazione di uno stato socialista ebraico in Palestina ed era anche molto chiaro sui mezzi da adottare: far venire ebrei dall’Europa ed espellere la popolazione araba indigena. Il suo trattato “La questione ebraica e lo stato socialista” (1898) è chiaramente influenzato dall’opera di Hess e Syrkin è stato presumibilmente il primo a definire come compito del socialismo sionista quello di favorire l’immigrazione di massa e l’insediamento collettivo in Palestina.

I “marxisti ortodossi” come Ber Borochov erano d’accordo: ne “La questione nazionale e la lotta di classe” e ne “La nostra piattaforma” (1906) asseriva che la creazione di uno stato ebraico in Palestina sostenuto dalle potenze imperiali europee avrebbe necessariamente spazzato via i nativi arabi.

Sebbene fossero ancora pochi, i socialisti sionisti cominciarono a crescere nel primo decennio del ventesimo secolo. Guadagnarono in popolarità dopo il Programma Uganda di Hertz del 1903 – in cui si cercava di creare con il sostegno inglese una patria per il popolo ebraico nell’Africa Orientale – e la conseguente ascesa dell’Organizzazione Territorialista Ebraica, che proponeva la costruzione di un territorio ebraico (o di più territori) in varie zone dell’Africa, Asia, Australia e dell’Unione Sovietica.

Paradossalmente erano proprio i sionisti socialisti i maggiori oppositori del territorialismo poichè credevano che rasentasse l’internazionalismo e sostenevano che un futuro stato ebraico potesse essere realizzato solamente tramite la creazione di numerose cooperative e di insediamenti agricoli comunitari. Il kibbutz divenne dunque la quintessenza di questo progetto, contemporaneamente simbolo e manifestazione dell’unione tra socialismo e nazionalismo.

Comunque il sionismo laburista non ha assolutamente fatto una rivoluzione proletaria e ciò è evidente nei movimenti giovanili sionisti prosperati in seguito all’enorme flusso di immigrati ebrei in Palestina nei primi decenni del ventesimo secolo. Ad esempio Hashomer Hatzair – un gruppo fondato nel 1903 dai sionisti dell’Europa Orientale e che in seguito ha ospitato Bernie Sanders – fu fondamentale per la costruzione dei primi kibbutz agricoli.

Malgrado la sua piattaforma socialista ed egualitaria – e una militanza ampiamente ispirata alla filosofia marxista di Borochov – Hashomer Hatzair ha avuto come obiettivo quello di far insediare i nuovi arrivati su delle terre confiscate agli arabi. Il primo kibbutz – costruito nel 1909 nella Palestina settentrionale e chiamato Degania, Madre dei Kibbutzim – ha messo in pratica questa visione con dei risultati prevedibili.

Fin dai primi passi della colonizzazione i dirigenti del sionismo laburista e del movimento dei kibbutz avevano come principale bersaglio la fratellanza arabo-ebraica. Uno di questi capi era David Ben-Gurion, che in seguito divenne il primo capo del governo di Israele ed è ampiamente riconosciuto come il padre fondatore della patria. Un anno dopo essere giunto in Palestina dall’Impero Russo, nel 1907, il giovane Ben-Gurion iniziò a sostenere la formazione di una forza lavoro esclusivamente ebraica sulle terre di proprietà del Fondo Nazionale Ebraico.

Questi ideali vennero poi consolidati in due dottrine altamente nazionaliste: il Lavoro Ebraico e la Conquista Ebraica del Lavoro. Insieme fornirono la giustificazione intellettuale per rimpiazzare i lavoratori arabi con quelli ebrei negli insediamenti comunitari ebraici costruiti sulle terre arabe espropriate.

Le due politiche ebbero grande sostegno sia dai partiti sionisti non marxisti (come Hapoel Hatzair) che dalle formazioni socialiste (soprattutto Poale Zion, i Lavoratori di Sion).

Nel ’19 Ben-Gurion e i suoi compagni fondarono Ahdut Haavoda (l’Unione del Lavoro), una federazione laburista contraria all’ingresso nell’Internazionale Comunista e allineatasi con l’Organizzazione Sionista. Dagli anni ’20 Ben-Gurion premeva per attuare con la forza la sua dottrina del Lavoro Ebraico in tutta l’economia ebraica nella Palestina Mandataria.

Inoltre sosteneva la totale separazione etnica tra le due comunità: “Gli ebrei e gli arabi – scriveva nel 1920 – dovrebbero vivere e lavorare in insediamenti ed economie separate.” Nel 1924 durante un discorso al sindacato dei ferrovieri si pronunciò in favore della divisione dei sindacati su basi etniche in quei posti di lavoro misti come le Ferrovie della Palestina.

Infatti Ben-Gurion ha ripetutamente messo in discussione le visioni più romantiche dei kibbutz: in un saggio del 1956 ammise che il movimento non si fondava su ideali socialisti come credevano in molti ma era “un mezzo per proteggere i lavoratori ebrei”. Inoltre spiegava che la dottrina del Lavoro Ebraico non derivava dalla lotta di classe, bensì dal separatismo etnico: coloro che aderivano al sionismo laburista dovevano innalzare gli interessi etnici e nazionali al di sopra della solidarietà di classe.

Così il sionismo socialista ha portato a connotare su basi razziali la lotta di classe e a riconfigurare il concetto di lavoro su base etnica. Per i sionisti laburisti il lavoro arabo non era nient’altro che un modo di produzione primitivo inutile per la rivoluzione proletaria mentre solo il Lavoro Ebraico avrebbe alimentato il progetto sionista socialista.

Per promuovere la propria impresa nazionale e di costruzione di uno stato in Palestina i sionisti laburisti hanno lavorato per organizzare i coloni in una classe operaia esclusivamente ebraica. Anche in questo caso l’obiettivo finale non era la liberazione del proletariato ebraico bensì il totale monopolio da parte del sionismo laburista sull’economia locale, sui suoi modi di produzione e sulla quota di mercato. Il kibbutz divenne il prototipo del futuro stato. “Il nostro stato non è nè capitalista nè socialista” scriveva Ben-Gurion nel 1951. Era semplicemente uno stato ebraico.

Nel Mandato di Palestina il sionismo socialista si è ovviamente fatto più nemici che amici. Le sue politiche razziste gli alienarono e gli inimicarono la popolazione araba. Dal 1935 solo il 5% della forza lavoro araba aveva lavorato nel settore ebraico (soprattutto in agricoltura) e praticamente nessuno nelle terre possedute dai kibbutz.

Nei cinque anni successivi gli espropriati si ribellarono: nel 1936 ci fu uno sciopero generale durato cinque mesi innescato dal monopolio quasi totale del sionismo laburista e della sua politica del Lavoro Ebraico. Subito dopo ne seguì una sollevazione di tre anni guidata da operai impoveriti, lavoratori marginalizzati e contadini senza terra. Le forze mandatarie inglesi con l’aiuto delle organizzazioni paramilitari sioniste risposero schiacciando la rivolta. Questa fu una vittoria decisiva per il sionismo laburista e un colpo decisivo al socialismo in Palestina.

La tragedia è che c’erano numerose alternative veramente di sinistra che vennero rifiutate: si respinse il Territorialismo, che chiedeva una patria nazionale ebraica in Palestina o da un’altra parte; si opposero all’autonomismo, che sosteneva i diritti nazionali su base non territoriale per gli ebrei che vivevano negli imperi multinazionali; denunciarono il folkismo, che promuoveva un’identità culturale ebraica nelle comunità che parlavano Yiddish.

Vennero soppressi gruppi come il Bund, un partito degli operai ebrei che rifuggiva il sionismo e riteneva che la soluzione alla “questione ebraica” fosse il raggiungimento del socialismo e dell’autonomia nazionale-culturale ma non territoriale in Europa Orientale, così come i partiti socialisti non ebraici, i cui membri ebrei si opponevano al nazionalismo ebraico sia nella sua forma sionista-territorialista che in quella bundista-culturale, sostenendo invece la rivoluzione socialista.

Le formazioni pacifiste subirono la stessa sorte, comprese le organizzazioni comuniste ebraiche antisioniste che difendevano l’integrazione nella società araba.

Liberazione per alcuni

Negli anni finali del Mandato il sionismo laburista si era trasformato in un movimento militarista e la maggior parte dei suoi gruppi erano confluiti nelle organizzazioni di difesa e paramilitari Haganah e Palmach, che divennero poi il nucleo delle Forze di Difesa di Israele (IDF).

Il sionismo laburista, schiacciato dal nazionalismo ed ora anche da un intenso militarismo, è così culminato in ciò che lo storico Sven Beckert definisce “capitalismo di guerra”: un capitalismo ad alta intensità di lavoro e di terra che non prospera nelle fabbriche ma sul campo e si poggia sull’esproprio violento della terra e del lavoro. I prodromi di questa forma emergente di capitalismo si possono rintracciare in organizzazioni protosioniste come Bilu e Hovevei Zion, fondate alla fine del diciannovesimo secolo per promuovere gli insediamenti agricoli e le colonie ebraiche in Palestina.

Fin dall’inizio si vedeva che era un matrimonio tra caratteri incompatibili ma il socialismo del sionismo laburista venne velocemente sradicato dal nazionalismo che permeava l’impresa coloniale sionista. Il divorzio è stato poi consumato dai padri fondatori dello Stato di Israele.

I kibbutz sono inscindibili da questa storia poichè erano le fondamenta del sionismo laburista e l’espressione pratica dei suoi ideali più profondi.

La fondazione dei moderni kibbutz è stata guidata dal separatismo etnico e da un’egualitarismo non fondato sulla classe o sull’internazionalismo socialista. Piuttosto che forgiare una solidarietà di classe che attraversasse le divisioni etniche i sionisti laburisti hanno rinforzato le gerarchie sociali, l’egemonia etnica e l’oppressione religiosa.

Sebbene la nozione di “sionismo socialista” (o di “kibbutz socialisti”) dovrebbe sembrarci un ossimoro, la copertura mediatica delle primarie ci conferma ancora una volta che c’è grossa confusione quando si tratta di questo argomento.

Uno dei motivi è l’unione dei termini “comunitario” e “socialista”. Secondo i loro fondatori i kibbutz erano degli insediamenti comunitari fondati sui principi di comproprietà, eguaglianza economica e cooperazione della produzione. Ma era una comproprietà ebraica, un’eguaglianza ebraica e una cooperazione ebraica. Un paradiso comunitario, forse, ma solamente per un gruppo etnico.

Coloro che cercano un vero esempio di socialismo non ne potrebbero essere più lontani.

Seraj Assi ha un dottorato in studi arabi ed islamici alla Georgetown University.

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